Un’altra economia o un altro rapporto tra uomini e donne?

di Lea Melandri

 

Sono soprattutto le donne che hanno voglia di avere un lavoro che consenta di fare altre cose nella vita. Gli uomini riescono a vivere di solo lavoro perché hanno qualcuno che pensa al resto”. Con questa riflessione si chiude una delle tante interviste che Paola Zappaterra, esperta di storia orale, ricercatrice presso l’Associazione Orlando di Bologna, sta raccogliendo su esperienze di un’ “altra economia”. Il seminario a cui siamo state invitate insieme a Ravenna è lo stesso a cui hanno partecipato il 4 marzo 2011 Serge Latouche e Antonella Picchio. In un articolo, pubblicato su Gli Altri (18.3.11), Picchio scrive: “Fino a quando gli uomini adulti non porteranno nello spazio pubblico e politico il loro disagio del corpo e della mente e non collegheranno in modo più sano tempi di vita e di lavoro, desideri e realtà, beni e relazioni, partendo dai loro corpi, insicurezze, emozioni, non c’è speranza di arrivare a una buona vita liberata dalle devastazioni del lavoro salariato, della crescita insana, del consumo alienante”.

A Latouche, che nella sua teoria della decrescita non sembra tener conto del rapporto tra produzione di beni e riproduzione sociale della popolazione, l’economista femminista ricorda  l’enorme massa di lavoro non pagato domestico e di cura, la cui qualità “etica e relazionale” sarebbe in grado di “spostare la visione economica svelandone il riduttivismo mistificante”. Pur nella radicalità del suo assunto  - la fuoriuscita dall’economia-, la sfida di Latouche resterebbe dunque interna a un sistema produttivo che si è costruito storicamente sull’esclusione di esperienze essenziali dell’umano, identificate col ruolo “naturale” della donna, custode degli interessi della sessualità e della famiglia.
Che cosa significa uscire dall’ “imperialismo dell’economia” per ritrovare  “ il sociale e il politico”  -come si legge ne suo ultimo libro, Come si esce dalla società dei consumi (Bollati Boringhieri, 2011)-, se non si nomina l’atto fondativo della polis, la scissione originaria che ha contrapposto e complementarizzato, subordinando un polo all’altro, non solo i ruoli del femminile e del maschile, ma anche natura e cultura, sentimenti e ragione, individuo e società, infanzia e storia? Come si può pensare che si possa ristabilire, fuori da conflitti, una “continuità” là dove c’è stata una differenziazione violenta e la nascita di un dominio così duraturo, come quello di un sesso sull’altro? La “decolonizzazione” dell’immaginario non può che cominciare da quella guerra mai dichiarata che ha visto la civiltà comportarsi, rispetto al suo retroterra  -la donna, la famiglia, l’amore- come “una stirpe o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo” (Freud). Se è vero che non esistono una crescita e uno sviluppo senza limiti, una natura così prodiga da offrire vantaggi infiniti all’uomo, anche quella “risorsa” che è il lavoro femminile di cura  -il maternage incondizionato che oggi si vorrebbe estendere come “valore aggiunto” al maggior rendimento delle imprese-  ha toccato, con il risveglio della coscienza femminile, una soglia di non ritorno.

Il rapporto tra vita e lavoro, sfera privata e sfera pubblica, è oggi al centro di un cambiamento sostanziale che non interessa solo l’economia, il delirio produttivistico, la tirannia del consumo e delle merci, ma l’idea stessa di “sociale” e di “politica” così come è  stata tradizionalmente intesa dalla comunità storica degli uomini. Criticate da Latouche, le esperienze di un’ “altra economia”, un “altro sviluppo”, appaiono da questo punto di vista più rivelative di quanto non lo sia la decrescita, riguardo alle contraddizioni e alle ambiguità a cui va incontro il superamento dei confini tra la casa e la città, il tentativo di creare legami non violenti tra il corpo e la polis.

Nella ricerca di Paola Zappaterra colpisce l’età delle intervistate  -tra i trenta e i quarant’anni-, la condizione sociale, la prima generazione nata da famiglie contadine inurbate negli anni ’60, l’alto livello di istruzione e il passaggio attraverso un’occupazione garantita e ben remunerata, che a un certo punto decidono di lasciare. Rosalinda Triggiani, per fare un esempio, gestisce oggi a Bologna una bottega di commercio equosolidale assieme a un’amica. Laureata in economia e commercio, ha lavorato prima per dieci anni come manager in una multinazionale , che si occupava di articoli sportivi. Poi sono venuti i dubbi, i ripensamenti su cosa significa lavorare con certi fornitori, certi paesi, fare straordinari che non ti vengono pagati, vedere i livelli decisionali riservati agli uomini. Ma, soprattutto, rendersi conto che “l’azienda è strutturata su persone senza figli”. Come molte altre, Rosalinda attribuisce al lavoro fatto in precedenza un valore formativo che ha potuto trasferire nel progetto di un’ “altra economia”, così come riconosce che la sua scelta è stata dettata dal desiderio di “avere tempo per il negozio e per i bambini”. Ma se la maternità è per alcune la spinta più forte al cambiamento, per tutte l’alternativa sta nell’aprirsi di un ventaglio impensato di manifestazioni di vita: “riappropriarsi della produzione di energia, non essere solo utenti, fruitori. E’ come se tu dovessi reimparare ad alimentarti, a parlare”; “ripresa del controllo sulla propria sopravvivenza, su cosa fai per mangiare, per vivere. Non una via di fuga dal mondo, ma un rientrare nel mondo”; “un’economia intesa non tanto come il fare denaro, ma come il modo in cui ci sosteniamo, viviamo”; “partecipazione a livello di territori, società, reti relazionali, coscienza di quello che consumi, preferibile al buttarsi in politica. Una conquista quotidiana lenta, contraddittoria, un altro modo di fare la rivoluzione, seminare e aspettare che i semi diano frutti”.

L’ “altra economia” sembra dunque in consonanza con quell’ “abc dell’impegno” che Miguel Benasayag , nel libro omonimo (Feltrinelli 2005), ha indicato come argine “contro il niente” di una società che ha smesso di interrogarsi sul senso e sulla qualità della vita. Occuparsi del proprio agire, trovare il mondo nelle nostre singolarità: l’azione ristretta, la modificazione del quotidiano, sono gli unici modi non astratti, non volontaristici di incontrare gli altri e di “accedere al generale”. Nel suo “strano radicalismo”, Benasayag mostra anche la strada per sottrarsi al rischio, che si avverte nella scelta di un’ “altra economia”, di un ritorno al passato, alla natura buona, al comunitarismo rurale: “solo le pratiche in cui ciascuno sviluppi la sua attività permettono la costruzione di una base comune”. Vista dall’ottica di una cultura femminista che ha messo in discussione entrambi i poli della dualità,  l’ “altro mondo possibile” che si delinea all’orizzonte appare ancora molto confuso, pieno di contraddizioni. Desta giustamente sospetto il fatto che la riscoperta e la valorizzazione di tutto ciò che è stato identificato e confuso con il “femminile” avvenga nell’inconsapevolezza o quanto meno senza nominare il rapporto di potere tra i sessi;  e, inoltre, il fatto che le donne stesse, presenti in numero rilevante nel volontariato, nell’ambientalismo, nelle cooperative sociali, nel commercio equosolidale, incontrino anche in questi luoghi la difficoltà “a farsi rispettare”, far riconoscere il proprio lavoro, assumere ruoli direttivi, senza che questo sia, almeno all’apparenza, ragione di conflitto, di ribellione. Non è difficile capire che, se per un verso si sta eclissando il volto autoritario del patriarcato, non si può dire altrettanto dell’androginismo o femminilizzazione del maschile, che si fa strada nella new economy come nelle alternative all’economia capitalistica, lasciando intravedere parentele insospettabili tra realtà  che si pensavano radicalmente diverse.

 

Pubblicato su "Gli Altri" 11-4-2011